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Definire un avversario politico “compagno di merende” non è diffamazione

Una delle decisioni forse più difficile da prendere per i giudici è quella che riguarda la diffamazione, infatti è sempre molto difficile capire dove finisce la critica e dove inizia l’insulto.

Questo caso ha portato alla luce proprio questo aspetto, ed è stato stabilito che non costituisce diffamazione l’attacco all’avversario politico con epiteti quali compagno di merende e di brigata.

E’ stata la sentenza 41551/2009 della Suprema Corte a stabilirlo, affermando che comunque frasi del genere rientrano nei limiti del legittimo diritto di critica e di cronaca, cioè quelli della verità, continenza e pertinenza.

Questo caso particolare nasce dalla vicenda di un uomo, che scarcerato dopo anni di prigione, aveva accusato un suo avversario politico di essere creatore di un complotto, affermando di essere stato sbattuto in carcere proprio a causa delle accuse portate dall’avversario politico.

Proprio nella conferenza in cui l’uomo si sfogò contro la sua ingiusta detenzione, apostrofò il politico insieme ad altri colleghi come compagno di merende e facente parte di una brigata.

Fu subito querelato per diffamazione, fu condannato in primo grado ma in secondo grado fu assolto. Ora la Suprema Corte ha stabilito in modo migliore rispetto a prima in cosa si differenzia un’offesa da una critica.

La Suprema Corte ha giudicato pertinente lo sfogo dell’uomo, e comunque non ha ravvisato attacchi personali o gratuiti alla sfera morale dei soggetti.