Operai costretti a lavorare nonostante il sisma

di Gianni Puglisi Commenta

Compito nostro è quello di interrogarci sul destino delle numerose vite che sarebbero andate irrimediabilmente perdute e sul destino degli italiani e dell'Italia che, purtroppo, ancora oggi costringe i propri figli a lavorare in fabbriche insicure per uno stipendio da fame.

Mirandola, Medolla, Cavezzo, San Felice sul Panaro. Questi i nomi dei paesi, 50.000 anime in tutto di cui oltre 15.000 sfollati e 17 deceduti, letteralmente spazzati via dagli sciami sismici che, a partire dalla notte tra sabato 19 maggio e domenica 20 maggio 2012, starebbe continuando a scuotere, sconvolgere, rivoltare, affossare ed innalzare la pianura padana cominciando a darle quella forma, probabilmente collinare, che fra qualche secolo potrebbe assumere.

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Il dramma però, il vero dramma, è un altro. Nella tragica giornata di martedì 29 maggio 2012, segnata da ben due scosse sismiche di magnitudo superiore ai 5 gradi della scala Richter, molte persone, troppe persone, sono morte poiché si trovavano all’interno delle numerosissime piccole, medie e grandi imprese della zona che, come certamente saprete, si sarebbero letteralmente sgretolate, cadendo a pezzi, sotto l’onda d’urto del terremoto alla quale, tuttavia, avrebbero dovuto tranquillamente resistere.

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Chi confermò, dopo il primo sciame sismico di ormai due settimane fa, l’agibilità dei capannoni crollati non è certamente nostro compito dirlo ne, tanto meno, indagare sulla scabrosa vicenda sulla quale, comunque, la procura di Modena avrebbe in queste ore aperto un fascicolo per omicidio colposo.

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Compito nostro è quello di interrogarci sul destino delle numerose vite che, sotto quei capannoni crollati, sarebbero andate irrimediabilmente perdute e sul destino degli italiani e dell’Italia, di un’Italia che, purtroppo, ancora oggi costringe i propri figli, a causa di contratti di lavoro che, in considerazione degli eventi appena accaduti, definire immorali ci sembra ben poca cosa, a lavorare in fabbriche insicure per uno stipendio da fame.